venerdì 23 novembre 2012

ISOLA DELLE FEMMINE IL MINISTRO SCIOGLIE IL CONSIGLIO COMUNALE LA KUPOLA DELLA POLITIKA A ISOLA DELLE FEMMINE



Mafia, trovato il
libro mastro del clan Graviano 

Ecco la spending review varata da Cosa nostra

Durante le indagini sui boss delle stragi, i finanzieri del nucleo speciale di polizia valutaria di Palermo hanno scoperto l'ultima contabilità della famiglia di Brancaccio. Rispetto agli appunti ritrovati dieci anni fa, sono evidenti i tagli: stipendi dimezzati per le mogli dei boss in carcere. Ma i tagli più cospicui riguardano i prestanome e i familiari degli uomini d'onore al 41 bis

di SALVO
PALAZZOLO

 

 

In tempi di crisi, anche Cosa nostra ha attuato la sua spending review. Lo rivela un documento eccezionale ritrovato dai finanzieri del nucleo speciale di polizia valutaria:
è l'ultimo libro mastro della famiglia mafiosa di Filippo e Giuseppe Graviano, i boss delle stragi, che possono contare ancora su un cospicuo patrimonio. In alcuni foglietti sono indicati i nuovi stipendi per i familiari dei mafiosi e i fedeli prestanome dei boss. E i tagli sono evidenti, rispetto alle cifre scoperte alcuni anni fa, nell'ambito di un'altra indagine sul clan di Brancaccio. Gli stipendi sono proprio dimezzati. "4.000 Bib.", scriveva qualche mese fa uno dei ragioneri del clan. "4000 F.", "4000 Picc.". Secondo i finanzieri coordinati dal tenente colonnello Pietro Vinco, queste sono le paghe mensili corrisposte dall'organizzazione alle donne
dei Graviano. "Bib." sta per Bibbiana, ovvero il secondo nome di
Rosalia Galdi, la moglie di Giuseppe Graviano. "F." è Francesca
Buttitta, la moglie di Filippo. "Picc." sta per 
picciridda, ovvero la piccola di casa, Nunzia, la
sorella dei Graviano, anche lei attualmente in carcere con l'accusa di aver
gestito il patrimonio di famiglia.


Solo 1.000 euro al mese, invece, per il più grande dei fratelli Graviano,
Benedetto, che è sempre rimasto ai margini del clan. Nel libro mastro è
indicato come "Ciccio Benni".




Stipendi tagliati anche per i prestanome. "2.500 Enzo", è annotato
nell'appunto. Secondo i finanzieri potrebbe essere un riferimento a Vincenzo
Lombardo, il gestore di un pompa di benzina Ip, di recente coinvolto
nell'ultimo sequestro di beni a carico del clan Graviano. Nello stesso appunto
è scritto: "2.500 Ip Leonardo". Chi indaga ritiene che si riferisca
allo stipendio di un altro inospettabile prestanome, pure lui impegnato nella
gestione di un rifornimento carburante per conto di Cosa nostra. Un altro
indizio, in quel foglietto, dice che l'ultimo business dei boss è nelle pompe
di benzina: "500 Scalia". Potrebbe essere un riferimento a un piccolo
distributore che si trova in piazza Scalia, a Palermo.
 



Di certo, qualche mese fa, il nucleo speciale di polizia valutaria oggi diretto
dal generale Giuseppe Bottillo, ha sequestrato un patrimonio da 30 milioni di
euro ai Graviano. Durante una perquisizione negli uffici di un distributore di
benzina, lungo la circonvallazione, è stato poi trovato il libro mastro che
oggi
 Repubblica.itmostra in esclusiva: dopo lunghi accertamenti, il pubblico
ministero Dario Scaletta ha depositato ieri il documento al tribunale misure di
prevenzione.  



Le carte dicono che la spending review di Cosa nostra ha colpito soprattutto il
popolo dell'organizzazione mafiosa oggi in carcere. Solo 1000 euro al mese per
la moglie di uno dei killer più fedeli al servizio dei Graviano, oggi anche lui
al carcere duro. Cinquecento euro in più per la moglie di un prestanome finito
in cella. Ecco cosa annotava il ragioniere del clan: "1.500 stipendio
Maria", ovvero Maria Anna Di Giuseppe, la moglie di Giuseppe Faraone. E
poi: "1.000 stipendio Antonella". Secondo i finanzieri sarebbe un
riferimento ad Antonietta Lo Giudice, la moglie del superkiller Giorgio Pizzo.
 



Qualche mese fa, la signora Lo Giudice ha fatto una scelta coraggiosa, una
scelta d'amore: ha deciso di seguire il suo nuovo compagno, Fabio Tranchina, un
tempo l'autista di Giuseppe Graviano, oggi è un collaboratore di giustizia. E
al clan non è rimasto che prenderne atto: alla signora Lo Giudice lo stipendio
è stato revocato, e la somma  -  sotto forma di buoni benzina - è
stata girata alla figlia, che si è schierata con il padre in carcere e ha
deciso di restare a Palermo.



Insomma, sono ormai lontani i tempi in cui i Graviano facevano sapere dal
carcere, tramite un loro avvocato di fiducia: "Vorremmo che si
raddoppiassero gli stipendi per agosto". E poi ancora: "Subito la
Mercedes classe E 200 Kompressor". I boss volevano che le loro mogli si
muovessero comodamente a Nizza. Era il 1999. Adesso, le signore Graviano hanno
preso casa in un condominio a pochi passi dalla stazione centrale di Palermo.
Anche per i boss la spending review era ormai diventata una necessità, e non
solo per la crisi economica, ma soprattutto per i pesanti colpi inferti da
magistratura e forze dell'ordine.
 




 
FOTO

Trovato il libro mastro dei Graviano

Ecco la spending review di Cosa nostra



 
(23 novembre 2012)

 

http://palermo.repubblica.it/cronaca/2012/11/23/news/mafia_trovato_il_libro_mastro_del_clan_graviano_ecco_la_spending_review_varata_da_cosa_nostra-47237534/

 

Il cavallo d' oro dei capimafia

IL CAVALLO Irak era in un box dell' ippodromo alla Favorita. I
custodi sono rimasti a bocca aperta quando sono arrivati i carabinieri del Ros
per sequestrarlo. Il purosangue è conosciuto per avere vinto diverse corse. A
montarlo da alcuni anni era l' imprenditore del settore delle forniture
alimentari Vincenzo Sgadari, prima di venire arrestato nel blitz Rebus dei
carabinieri, nel 2008. L'
imprenditore è uno dei tre destinatari del provvedimento di sequestro della
sezione misure di prevenzione del Tribunale eseguito dal Ros. Gli altri due
sono il boss Michele Di Trapani e Massimiliano Lo Verde. Sotto sequestro sono
finiti beni per 22 milioni di euro riconducibili al clan mafioso Madonia Di
Trapani del mandamento di Resuttana. Aziende edili, attività commerciali, quote
societarie, ville lussuose, terreni, auto, conti correnti tra la città e i
comuni di Cinisi, Carini e Isola delle Femmine. Il sequestro arriva ad un anno
da un altro sequestro nei confronti del clan di Resuttanaea due anni dagli
arresti del blitz Rebus che coinvolse esponenti di spicco di Cosa nostra,
compresi i figli già detenuti del defunto capo mandamento Francesco Madonia.
Michele Di Trapani è lo zio di Maria Angela Di Trapani, la moglie di Salvatore
Madonia, la donna che ha portato fuori dal 41 bis gli ordini dei boss e gestiva
gli affari del clan. Nella richiesta di sequestro, i sostituti procuratori
Gaetano Paci e Vania Contrafatto, coordinati dall' aggiunto Roberto Scarpinato,
tracciano anche le figure degli altri due personaggi arrestati nel 2008.
Vincenzo Sgadari, detto "bicicletta", è il padrino di cresima di
Francesco Di Pace, persona di fiducia dei Lo Piccolo. I risultati dell'
indagine Rebus hanno portato alla luce anche che Sgadari era stato il
"tramite comunicativo" da e per i Lo Piccolo durante la loro
latitanza. L' imprenditore conosceva anche diversi avvenimenti che riguardavano
il boss Giovanni Bonanno, ucciso nel 2006. Di Sgadari parlano anche i
collaboratori Antonino Nuccio e Gaspare Pulizzi. Dice Nuccio nel novembre 2007:
«Avevo portato a Carini dei pizzini e degli orologi. Avevo lasciato il tutto a
Enzo Sgadari detto bicicletta». Massimiliano Lo Verde nella richiesta dei pm è
stato definito come «l' esecutore degli ordini», emanati dal carcere dai
fratelli Madonia. Lo Verde ha anche ricoperto la funzione di «intestatario
fittizio» dei beni riconducibili al clan di Resuttana ed è stato l' uomo di
fiducia e l' autista-accompagnatore di Maria Angela Di Trapani. La cosca dei
Madonia-Di Trapani è stata protagonista dell' ascesa dei corleonesi ai vertici
di Cosa nostra. I suoi esponenti sono stati giudicati colpevoli degli omicidi
di Pio La Torre, del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, dell' imprenditore
Libero Grassi e di Ninni Cassarà, ma anche del piccolo Giuseppe Di Matteo.  


ROMINA MARCECA






Mafia, beni per 22
milioni sequestrati al clan Madonia

L'operazione del Ros dei carabinieri, su ordine del tribunale.
Sequestrati aziende edili, attività commerciali, quote societarie, abitazioni,
terreni, numerose auto e anche un cavallo da corsa


Beni per 22 milioni di euro sono stati sequestrati al clan
mafioso Madonia-Di Trapani del mandamento di Resuttana, a Palermo. Sottratti
immobili, imprese e persino un cavallo da corsa. I carabinieri dei Ros,
infatti, hanno dato esecuzione ai provvedimenti disposti dal Tribunale del
capoluogo siciliano, su richiesta del dipartimento di Criminalità economica
della procura.



Il sequestro è scattato a conclusione di un percorso investigativo che, dopo
aver portato all'arresto degli esponenti di spicco dell'organizzazione
criminale, compresi i figli del defunto capo mandamento Francesco Madonia, ha
consentito ai militari del Raggruppamento operativo speciale, coordinati dai
magistrati palermitani, di individuare e sottoporre al provvedimento aziende
edili, attività commerciali, quote societarie, abitazioni, terreni, numerose
auto e anche un cavallo da corsa di nome "Irak".




La cosca dei Madonia-Di Trapani è stata protagonista dell'ascesa dei corleonesi
ai vertici di Cosa nostra, tanto che i suoi principali esponenti sono stati
giudicati colpevoli degli omicidi di Pio La Torre, del generale Carlo Alberto
Dalla Chiesa, dell'imprenditore Libero Grassi e di Antonio Cassarà, nonché del
piccolo Giuseppe Di Matteo. I provvedimenti di sequestro, nell'ambito
dell'operazione "Rebus", hanno interessato un vasto patrimonio nel
capoluogo siciliano e nei comuni di Cinisi, Carini e Isola delle Femmine,
colpendo beni riconducibili ai fratelli Madonia e Di Trapani, quelli
dell'imprenditore Vincenzo Sgadari e diMassimiliano Lo Verde, già raggiunti
dagli ordini d'arresto emessi il 5 dicembre 2008 e il 3 aprile 2009, per
associazione mafiosa, intestazione fittizia di beni e altri reati.




Le indagini avevano documentato il perdurante ruolo di vertice della famiglia
Madonia nelle strategie di Cosa nostra e l'evoluzione della gestione del
mandamento di Resuttana, in cui si erano avvicendati Giovanni Bonanno, Diego Di
Trapani e Salvatore Genova, designati da Antonino Madonia, in accordo con Salvatore
Lo Piccolo. Era stato accertato come prima Francesco Madonia, morto il 9 marzo
2007, e i figli Antonino, Giuseppe e Salvatore, nonché il cognato di
quest'ultimo Nicolò Di Trapani, benché detenuti e sottoposti al regime del 41
bis, avessero continuato a dirigere il clan tramite i periodici colloqui con i
congiunti e un fitto scambio di corrispondenza.



Le indagini avevano inoltre evidenziato l'inserimento dell'imprenditore Sgadari
nelle dinamiche della struttura mafiosa, sia per aver svolto il ruolo di
intermediario nella soluzione di una controversia tra Bonanno e Francesco Di
Pace, per la gestione della cassa comune della famiglia di Resuttana, sia per
essere stato un tramite attraverso il quale gli ex latitanti Salvatore e Sandro
Lo Piccolo, comunicavano le proprie direttive all'intera organizzazione
criminale.



L'indagine patrimoniale, oltre a verificare l'entità del patrimonio
riconducibile alla famiglia mafiosa, ha consentito di delineare l'asse
economico imprenditoriale, alimentato con conferimenti di "sospetta
provenienza" nel settore edile, con la realizzazione di fabbricati a uso
privato o la costituzione di imprese di costruzione per la cessione di
immobili, e in quello commerciale, mediante la realizzazione di alcuni negozi
di vendita al dettaglio. Accertata anche l'adozione da parte degli indagati di
ricorrenti accorgimenti finalizzati a tutelare i patrimoni dell'organizzazione,
quali la fittizia intestazione di immobili a incensurati.




I carabinieri del Ros hanno così individuato i prestanome del patrimonio
occulto delle famiglie Madonia-Di Trapani, e la disponibilità dell'imprenditore
Sgadari di complessi residenziali, fabbricati rurali, terreni magazzini e
locali commerciali. In definitiva è stata documentata dettagliatamente le
modalità di accumulazione di ingenti patrimoni illeciti da parte della cosca di
Resuttana, confermandone la pervasività nell'economia legale.




L'individuazione dei patrimoni illeciti resta, pertanto, uno degli obiettivi
principali della procura distrettuale di Palermo. Tra i beni sottoposti a
sequestro nei confronti di Michele Di Trapani il capitale sociale della
"In. tra. l. industria trasformazione legno", di Giuseppina Di
Trapani "Giuseppina e c. s. n. c. ", con sede a Cinisi; immobili a
Palermo in via Casalini, e a Cinisi in via Orlando; un terreno a Cinisi, in
contrada Margi-Bonanno; a Vincenzo Sgadari sottratti il capitale sociale della
Edilmigliaccio s. r. l. con sede a Palermo; le quote societarie della Pietro
Sgadari s. a. s. con sede a Palermo; villino a Carini; villino a Palermo, in
via Quasimodo e un cavallo da corsa di nome Irak.
(15 novembre 2010)

Sigilli al patrimonio dei padrini di Resuttana

«I Madonia sono ricchissimi, sono
miliardari», diceva il boss Antonino Cinà a Nino Rotolo nel gabbiotto di
lamiera in cui il capomafia agli arresti domiciliari teneva i suoi summit. Dopo
una serie di attività imprenditoriali in Umbria, una piccola parte del
patrimonio dei boss di San Lorenzo, oggi tutti in carcere, è stata sequestrata
ieri dai carabinieri del Ros coordinati dal nucleo criminalità economica della
Procura guidato da Roberto Scarpinato. «Nonostante reclusi al 41 bis - ha
sottolineato il magistrato-i Madonia continuavano a gestire dal carcere i loro
affari. Dalle intercettazioni abbiamo appreso che avevano intenzione di aprire
alcuni supermercati e un bar all' interno dell' ospedale di Villa Sofia».
Progetto andato in fumo dopo il blitz che l' anno scorso ha portato in carcere
anche Aldo Madonia, l' unico dei fratelli in libertà, e alcune donne del clan,
a cominciare da Mariangela Di Trapani, moglie di Salvo Madonia e figlia del
boss Francesco Di Trapani. Due potenti famiglie di mafia, alleate e
imparentate, che hanno investito e non solo nel mattone i proventi dei loro
traffici illeciti. Tra le attività sequestrate il bar Sofia, proprio di fronte
l' ingresso dell' omonimo ospedale, la cui gestione i Madonia avevano affidato
a Massimiliano Lo Verde. Ma proprio la gestione del patrimonio, soprattutto per
la mancanza di affidabilità di molti dei prestanome individuati, ha costretto
le donne di famiglia ad esporsi in prima persona. Il provvedimento eseguito
ieri, e scaturito dall' operazione Rebus, ha portato al sequestro di beni per
complessivi 15 milioni di euro. Si tratta, in massima parte di villee
appartamenti nella fascia costiera, dall' Addaura ad Isola delle Femmine, di
magazzini e appezzamenti di terreno, dai cantieri navali fino a Cinisi e
Carini. a.z.







Sigilli a un tesoro da 15 milioni scatta il
sequestro per il bar Sofia

Il sequestro preventivo, per 15 milioni di euro, è scattato per
il bar Sofia, accanto all' ospedale, ufficialmente di Massimiliano Lo Verde, in
realtà di proprietà dei boss, questo sostiene la Procura; poi per una villa
all' Addaura (via Lopez de Vega); per appezzamenti di terreno a Isola delle
Femmine; per appartamenti in un residence, ancora a Isola (via Passaggio del
coniglio); per tre appartamenti in via Aldisio 25, 42 e 47, a Palermo; per tre locali
commerciali, in via Aldisio 37, 44 e 44/A. Sigilli pure per alcuni terreni a
Cinisi (contrada San Giovanni, contrada Vecchio, contrada Cipollazzo). Ancora,
per un appartamento di sette vani in piazzale degli Alpini, a Palermo (con annesso
box). All' Acquasanta è scattato invece il sequestro di un terreno esteso 2920 metri quadrati.
Infine, sequestro per una villa al mare, in via Agave, Carini. «Dal carcere i
mafiosi continuavano a gestire il loro patrimonio», dice il vice comandante del
Ros Mario Parente alla conferenza stampa in Procura. Attraverso le
intercettazioni i carabinieri della sezione Anticrimine di Palermo hanno
ricostruito l' intera geografia del potere economico dello storico clan di
Resuttana. Oltre i cinque fermati, sono 37 gli indagati dell' inchiesta
ribattezzata "Rebus": sarebbero insospettabili prestanome dei boss di
Madonia. Per questa ragione sono accusati di fittizia intestazione di beni.
Adesso, i beni sono affidati alle cure di un amministratore giudiziario.








Mafia, cinque ergastoli per il piccolo Savoca

Riunirono l' intera commissione per
deliberare che da quel momento nessuno sgarro sarebbe stato tollerato. Nessuno
avrebbe potuto assaltare Tir senza autorizzazione, esponendo i capifamiglia
alle lamentele di chi pagava il pizzo. Avrebbero per questo individuato i cani
sciolti e gli avrebbero ordinato di cambiare genere. Per i riottosi sarebbe
stata condanna a morte. Fu così per Salvatore e Giuseppe Savoca, uccisi nel
1991. Con Giuseppe Savoca morì anche Andrea, il figlio di 4 anni e mezzo. Dieci
anni dopo è ergastolo per tre degli esecutori (Erasmo Troia, Santino Pullarà,
Giovanni Battaglia) e per due dei mandanti (Michelangelo La Barbera, capomafia
di Boccadifalco e Matteo Motisi «il vecchio», padrino di Pagliarelli). Due
collaboratori di giustizia, Giovambattista Ferrante, nel commando che uccise
Salvatore Savoca, e Salvatore Cancemi, capomandamento di Porta Nuova, sono
invece condannati rispettivamente a 10 e 11 anni di reclusione. La quarta
sezione della corte d' assise, presidente Leonardo Guarnotta, che ha processato
i 7 che hanno scelto il rito abbreviato, accoglie così in pieno le richieste
del pm Anna Maria Picozzi e ritocca al rialzo solo le pene per i pentiti
infliggendo due anni in più rispetto a quanto sollecitato dall' accusa.
Salvatore Savoca, rapinatore di Brancaccio, genero del costruttore Pietro Lo
Sicco, fu attirato in un tranello da un amico, Santino Pullarà, che lo agganciò
a Isola delle Femmine e con il pretesto di parlargli di una patente nautica lo
condusse nel negozio dei mobili dei Troia a Capaci e lì lo strangolò. Era il 24
luglio del 1991. Il cadavere fu disciolto nell' acido in un casolare di
Giovanni Battaglia. Due giorni più tardi un commando in moto, in via Pecori
Giraldi, affiancò l' auto del fratello di Salvatore Savoca, Giuseppe, titolare
di una officina di lavorazione del ferro in via Messina Marine. I sicari
approfittarono di un permesso premio di 4 giorni ottenuto dopo una condanna a 6
anni per rapina. Spararono nove colpi. Otto colpirono la vittima designata, il
nono si conficcò nel collo di Andrea. Gli esecutori, tra cui Salvatore Madonia
e gli altri mandanti, in tutto altri 14 presunti responsabili, tra cui Totò
Riina e Pietro Aglieri, sono processati con il rito ordinario. La madre del
piccolo Andrea, Diana, perdonò gli assassini del marito e del figlio durante i
funerali. Il periodico della Curia divulgò la notizia, ma la donna non si è
costituita parte civile. Ha solo avviato la pratica per il riconoscimento di
vittima della mafia. La ricostruzione del duplice omicidio è stata fatta per
primo da Giovambattista Ferrante che ne parlò negli interrogatori dell' estate
del 1998. Successivamente hanno parlato dei delitti anche Francesco Onorato,
Giovanni Brusca, Salvatore Cancemi e Giovanni Drago. I due fratelli erano
nipoti di Enzo Savoca, uomo d' onore. Nella riunione della commissione in cui
fu decisa la loro eliminazione Totò Riina, superò la questione con un
perentorio: «Ci penso io per mio compare; se ha qualcosa da dire».

ENRICO BELLAVIA






GLI AMERICANI GIA' IN SICILIA

PALERMO - Sbarcano a Palermo gli
agenti del Federal Bureau of Investigation, la sezione del Dipartimento di
giustizia statunitense che lavora sul crimine organizzato. Sono arrivati in
Sicilia per indagare sulla morte di Falcone, per portare la loro esperienza
investigativa, per affiancare i carabinieri e la polizia italiana nella ricerca
dei mandanti della strage dell' autostrada. La prima squadra di detective è
scesa ieri all' aeroporto di Punta Raisi, non si conosce l' identità degli
agenti, dicono che sono quelli che hanno incastrato il boss John Gotti e tutti
gli uomini d' onore della "famiglia" Gambino di New York. Alle cinque
di ieri pomeriggio c' è stato il primo vertice con gli agenti federali, alla
procura generale di Palermo, una mezza dozzina di 007 del Federal Bureau si è
subito incontrata con il procuratore capo di Caltanissetta Salvatore Celesti,
il magistrato che indaga sul "caso Falcone". La Sicilia è diventata
nell' ultima settimana zona di operazioni per eserciti di investigatori. Per le
vie di Palermo si muovono anche drappelli di uomini dei servizi, sono
dappertutto, in procura, nei ristoranti, negli alberghi, nelle borgate e nei
paesi vicini a Punta Raisi. Orecchie tese e occhi ben aperti per cogliere anche
il più insignificante particolare, per scoprire un indizio. E poi summit a
ripetizione. E' l' "intelligence" che è in azione, si sviluppano
ipotesi, si cerca un mandante, si cerca soprattutto nelle carte di Giovanni
Falcone. Chi più di altri in Sicilia lo voleva morto? Chi era in grado di
organizzare la trappola sull' A 29? Quanto peso bisogna dare al territorio dove
la strage è stata compiuta? Cominciamo ancora una volta dal "luogo della
strage", da quella fascia di terra compresa fra Capaci, Isola delle Femmine
e le prime borgate che circondano la città. La firma sull' attentato Territorio
controllato dai Di Trapani, dai Pipitone, dai Madonia. Ecco, i Madonia. C' è la
loro "firma" sull' attentato, è stato preparato sul loro mandamento,
c' è stata perfino una telefonata al Giornale di Sicilia, il quotidiano locale:
"Questo è il regalo di nozze di Salvino Madonia". Salvino si era
sposato sabato mattina all' Ucciardone con una ragazza della famiglia Di
Trapani, tutti gli uomini della cosca quel giorno, il giorno della morte di
Falcone, erano fuori Palermo, tutti con un alibi inattaccabile. Certo, molto
strano. Ma basta tutto questo per scaricare solo sui Madonia (che avevano
comunque ben ragione di dimostrare la loro potenza dopo le batoste ricevute
dalla polizia negli ultimi mesi) tutti i sospetti? Il primo rebus sulla morte
di Falcone ruota proprio intorno a questa "famiglia", nella prima
informativa ai magistrati la polizia indicherebbe le loro
"corresponsabilità" nel massacro. Ma subito dopo l'
"intelligence" ha preso in esame un' altra ipotesi. E cioè: c' è
forse qualcuno che vorrebbe addossare ai Madonia la morte di Falcone? Non è
stata sempre la strategia dei corleonesi quella di compiere omicidi e poi fare
accusare i loro nemici di cosca? Questa ipotesi reggeva con la forza della
logica fino a qualche giorno fa. S' è scoperto un elemento che allontana almeno
in parte questa possibilità. Quelli del pool antimafia sono in possesso di un'
informazione sicura che smonta l' ipotesi secondo la quale potrebbe esistere
una divisione fra Totò Riina e il gruppo Madonia. Abbiamo detto Totò Riina,
attenzione, non abbiamo detto i corleonesi. Perchè c' è qualche investigatore
che ha un sospetto: una frizione, forse qualcosa di più, fra Riina e
Provenzano, l' altro grande latitante del clan di Corleone. Quel sospetto nasce
da una serie di indagini ma anche da un fatto avvenuto 45 giorni fa a Corleone.
Lì è tornata la donna di Bernardo Provenzano, la signora Saveria Benedetta
Palazzolo. Ai carabinieri ha detto: "L' ho fatto per far riconoscere i
miei figli e mandarli a scuola". I carabinieri non sono rimasti molto
soddisfatti da questa spiegazione, pensano che la signora sia tornata in paese
perchè Provenzano ha qualche problema, perchè il boss ha scelto di muoversi libero
nella sua latitanza. Cosa significa questo? C' è aria di guerra dentro Cosa
Nostra, c' è qualcosa che annuncia sconvolgimenti. Ci sono stati troppi omicidi
"importanti" in questi ultimi 9 mesi in una zona di Palermo che
ricade nela territorio dei Madonia. Si comincia con Libero Grassi Si comincia
con il povero Libero Grassi e si finisce con Giovanni Falcone, in mezzo c' è
Salvo Lima. Tre delitti nel mandamento di don Ciccio Madonia, tre delitti dopo
anni di pace. A proposito dell' omicidio Lima, non è male ricordare un
particolare strano del dopo omicidio, un particolare strano che ritroviamo
anche nel dopo omicidio Falcone. Una telefonata. Dopo l' uccisione dell'
europarlamentare qualcuno telefonò al centralino di Repubblica per dire:
"L' assassino di Lima è Pietro Aglieri". Dopo l' uccisione di Falcone
la telefonata sul regalo di nozze dei Madonia. Quando mai i mafiosi avevano
rivendicato le loro scorribande? Mai, se si esclude una sola volta, 13 giorni
prima dell' uccisione del prefetto Dalla Chiesa. Insomma, queste due telefonate
sembrano fatte apposta per mischiare le carte, per scaricare sui Madonia l'
attentato a Falcone e su Pietro Aglieri detto "u signurinu" la morte
di Lima. Rivendicazioni quantomeno curiose, come se dentro Cosa Nostra ci fosse
uno scontro, una contrapposizione. Dei latitanti Riina e Provenzano sappiamo
tutto e niente, sappiamo che sono alla macchia da 25 anni e che nessuno conosce
i loro volti. Degli altri, di Pietro Agieri in particolare, sappiamo invece che
è anche lui latitante e che è diventato il capo mandamento di Santa Maria del
Gesù. Il suo vice, latitante, si chiama Carlo Greco. Il consigliere della
"famiglia" si chiama Giovanni Teresi detto "u pacchiuni".
L' esercito è formato da 24 uomini d' onore, molti dei quali conosciuti coi
nomi di battaglia di "Milincianedda", "Giannuzzu u beddu",
"Paluzzu u cani", "Pio Pio", "U pelatu",
"Faccia di gumma"... Sono loro i nemici di Riina il corleonese? Sono
loro il "problema" dentro Cosa Nostra? Qui, in Sicilia, sembrano tre
le guerre che ha cominciato a fare la mafia. Quella contro vecchi uomini
politici come Lima, quella contro i magistrati della Repubblica, quella all'
interno di se stessa.

dal nostro corrispondente ATTILIO BOLZONI





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